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Nel libro di David Foster Wallace, Infinite Jest, c’è una frase a pagina 244: “Che ci vuole un grande coraggio per mostrarsi deboli”. Una verità che mi ha persuaso a raccontare la storia vocazionale in televisione, consapevole che non era un comandamento farlo né un precetto convincere gli altri a guardarmi. La narrazione è andata in onda su Rai 3, sabato 4 luglio alle 23:50. Il titolo del docufilm: “Chi credete che io sia?” in onda per quattro puntate ogni sabato e in seconda serata sul terzo canale.

Nel comunicato stampa della Rai si legge di otto storie scelte (le prime due storie già sono state trasmesse la settimana scorsa) perché vicende di sacerdoti che si sporcano le mani con il profano. Uomini a confronto con altri uomini, ma soprattutto con sé stessi, con le paure, i dubbi, i rimorsi e il dolore degli altri e propri. Storie di svolte inattese, non sempre facili da capire oggi. Lo stesso credo d’essere una persona normale, non così inquieta né turbata, senza rimpianti. Soprattutto felice.

Di carattere schivo, ho sorpreso tutti perché in quasi trent’anni di vita conventuale non ho mai parlato del passato e di come ho incrociato Cristo. Ora finalmente ai curiosi potrò inviare un link su RaiPlay e tutto sarà spiegato. Quando qualcuno me lo chiedeva, consigliavo di ascoltare Path That Cross di Patti Smith o la sua Gloria, oppure l’album Radio Ethiopia. Senza dare alcuna spiegazione né coordinate per mappare il discernimento vocazionale perché è bello nascondersi al mondo e lasciarsi il passato alle spalle, vivere lieto il presente e pensare all’eternità. Scriveva San Paolo apostolo che se uno è in Cristo, è una creatura nuova, le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

Alcune vicende personali mi hanno convinto che era arrivato il momento di aprire lo scrigno dei segreti, sfogliare l’album dei ricordi, prendere in mano qualche vecchia fotografia e mostrarle al pubblico. L’intervista ha fatto infuriare i genitori che non vogliono visibilità. Come un montanaro, dopo aver scalato un’alta montagna, sabato sera mi siederò in cima a guardare quanta strada ho percorso per arrivare fin quassù. Scriveva Papa Francesco: “Guardarsi indietro è d’aiuto e quanto mai necessario per purificare la memoria, ma fissarsi sul passato […] può paralizzare e impedire di vivere il presente.” Impiego il tempo per orientarmi verso un avvenire nuovo, il resto conta poco, è solo un momento d’inaspettata visibilità. Finiranno presto quei minuti di celebrità che non si negano a nessuno, secondo la predizione di Andy Warhol.

Ci sono voluti due giorni di riprese e un’intervista lunga quasi tre ore per sintetizzare la storia in venti minuti. Tutto surreale, fuori dalle mie abitudini. Soprattutto divertente per un religioso passionista che non ha molte velleità. Non guardo nemmeno la tv, non ne possiedo una. Nel poco tempo libero a disposizione ascolto musica e leggo libri. Mentre scrivo, sullo stereo gira un disco di Elvis e poi un nastro dei Psychedelic Furs.

Ho accettato di partecipare al progetto perché provoca un cortocircuito culturale singolare, sacro e profano insieme, senza contrapposizioni. Una narrazione lontana dagli stereotipi che propone la figura del prete come un personaggio infallibile e senza macchia. Nel primo episodio ho sentito Johnny Cash, Damien Jurado e tanti altri. Scoprirò quali canzoni hanno scelto per la mia storia insieme ai telespettatori. Mi piacerebbe The Priest di Joni Mitchell, per quel dubbio e quella confusione che in molti proveranno incrociando in tv il mio sguardo. Oppure Un prete in automobile di Luigi Tenco per mostrare le mie contraddizioni e i contrasti con il Vangelo.

Ho esposto fatti che segnarono la mia prima giovinezza, storie realmente accadute come fossero uscite dai romanzi di Irvine Welsh, alcune divertenti e altre drammatiche in cui Dio s’incarnò. Lui… un Padre buono e fedele che ha trasformato un ragazzo qualunque in un altro Cristo per i suoi figli. Il resto è tutto vanità, solo vanità.

Il docufilm su RaiPlay è qui: “Chi credete che io sia?”

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