Ho cominciato a fidarmi del Boss

Arriva un pacco regalo in convento, dentro c’è il nuovo libro di Luca Miele “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” (Edizioni Claudiana) condensato in 78 pagine e da consultare come un testo di spiritualità. Il libro interpreta i testi del Boss in senso cristologico e carnale, ne analizza il conflitto. C’è la colpa del padre che ricade sul figlio, nell’ombra si muovono forze insurrezionali che spingono verso la morte e quelle resurrezionali, preludio della luce. Alla lettura accompagno l’ascolto dei brani citati. Mi fermo lì dove una canzone agita le acque dello spirito. Leggere Springsteen è come suonare un disco dei Pink Floyd, non ci si può distrarre perché Springsteen s’impone all’ascoltatore. Comincio a identificarmi con la sua inquietudine. La brevità del libro diventa un valore aggiunto, leggo e ascolto senza l’assillo di doverlo finire in poco tempo.

Pagina dopo pagina i testi delle canzoni incarnano paure, fallimenti e speranze finora taciute. E se mi fidassi del Boss? Dopo Bowie, ho forse trovato un interprete capace di leggermi? Bono “l’ignobile” ha tradito le attese, Major Tom è morto suicida nello spazio, Gaber e Lou Reed non ci sono più. Ho bisogno di un interlocutore, qualcuno che mi ascolti. Mentre leggo immagino ci sia qualcun’altro a fare lo stesso da un’altra parte, mi piacerebbe fraternizzare ascoltando un disco. Un bisogno comunionale per uscire dalla solitudine, gestire la rabbia e dare inizio alla rivolta per sé e per gli altri. Sta alla base della cultura rock e dell’opera di Bruce, è scritto sul libro a pagina 21: “Far girare un disco è pregare, la comunità che si costituisce attorno alla musica è una chiesa.”

Il libro di Luca non alimenta il mito di Springsteen che appare invece vulnerabile, contraddittorio, illuminato dalla grazia. “Il vangelo secondo Bruce Springsteen” è centrato su un uomo che vive tra il sacro e il profano, con una fede che si sviluppa, si ferma, si perde e lo salva inaspettatamente.

Possiedo pochi suoi dischi. Il primo album acquistato fu un nastro, “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”. Conobbi “Born To Run” in una versione dei Frankie Goes To Hollywood. Mi spinsi fino a “Nebraska”, “The River” e “Tunnel Of Love”. In radio trasmettevo “Brilliant Disguise” e a seguire “Notte Rosa” di Umberto Tozzi. Mentivo quando dicevo che si assomigliavano. Era un’espediente per superare l’obbligo a mezzogiorno di trasmettere solo musica italiana. In quel disco c’è la mia canzone preferita, “One Step Us”. In archivio guardavo il cofanetto in vinile “Live/1975-85” (cinque dischi) come un pezzo da possedere. Non ebbi il coraggio di farlo, rubai solo un disco di Jimi Hendrix. Comprai “Human Touch” e “Lucky Town” perché sottostimati dai fan del Boss. Ero fatto così, mi affezionavo alle cose che gli altri amavano poco. Poi ci furono “The Ghost of Tom Joad”, “The Rising”, “Magic” e “Wrecking Ball”.

Aggiungo due libri, “Come Un Killer Sotto Il Sole” a cura di Leonardo Colombati e l’autobiografia “Born To Run” del Boss. Tutto qui. Considerando la sterminata discografia di Springsteen, conosco quasi nulla di lui. Per anni ho posseduto quei dischi ignorando i riferimenti ai testi di San Paolo apostolo nell’album “The Rising”. Nello sfondo di “Into The Fire” trovo la prima lettera ai Tessalonicesi e agli Efesini. Straziante l’immagine di quei pompieri che ascendono tra le fiamme del World Trade Center tra la gente che cercava salvezza nella discesa. Ho ascoltato Springsteen con occhi nuovi. No, non è un errore. Ho visto la grazia nella sua scrittura e la musica rivestirla di magnificenza.

Una parte del libro mi ha commosso fino al punto di averla poi condivisa via WhatsApp con un fraterno amico il quale vive la situazione descritta nel brano “Silver Palomino”: una madre muore lasciando da solo suo figlio. Ho fotografato le pagine 35 e 36 e le ho inviate, scrivendogli: “Leggendo queste pagine ho pensato a te”. Luca Miele tratteggia la figura della Madre e delle madri nelle liriche di Springsteen. Meraviglioso, una riflessione che mi ha stupito, ho avuto uno shock positivo. Dopo due ore, l’amico mi scrive: “Che bella sorpresa questi tuoi messaggi. Grazie dal profondo del cuore. Ti voglio bene.” Ecco, è questa la comunione che cerco quando ascolto musica, provocata dall’interpretazione ben documentata di Luca. Quel pezzo a distanza ha rafforzato un legame con un amico, tra i più cari, senza un padre né una madre né fratelli. Signori, è il rock’n’roll.

La musica non rende migliori né ci aiuta a stare al mondo, basta leggere “Arancia Meccanica” di Anthony Burgess per capirlo. Offre però un tregua in una vita non facile per nessuno e che spesso ferisce, lasciando profonde cicatrici. Così sono i dischi di Patti Smith, un’ancora di speranza, mentre gli altri cantanti e il resto degli autori di canzoni sono bugiardi, tutta la musica è bugiarda perché non mantiene nessuna promessa. Quante volte ci siamo sentiti più soli dopo aver tritato i sentimenti in un riff di chitarra elettrica o visto un’idea rivoluzionaria prendere forma in un verso di una canzone per poi svanire a contatto con la realtà. Con Springsteen è diverso. Non racconta bugie né vende illusioni, scrive del suo dolore su cui posso appiccicarci il mio.

Le sue liriche hanno il sapore del sangue e del grano, il sangue versato durante una sconfitta su cui germoglia il grano della speranza. Diventa tuo compagno, traccia una strada e ti dice di salire senza esitare a bordo di quel treno che porta alla salvezza (che ri-scoperta “Land of Hope and Dreams” e “Rocky Groung”).

Springsteen continuerà a dirmi che ci sarà un battesimo di rinascita in cui potrò perdonare, perdonarmi e rinascere (“Spare Parts”). Se non avessi letto il libro di Luca non lo avrei mai saputo. Non avrei incontrato un nuovo amico, Bruce, di cui potermi fidare.

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