
Se un sacerdote scrive sui padri ci si aspetterebbe pagine dedicate alla paternità di Dio a partire dalle scritture, al suo significato nella vita spirituale dei credenti. E invece il libro scritto da don Massimo Granieri Nella bocca del pescecane (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2025, pagine 238, euro 18) è una toccante autobiografia che racconta con coraggio una figliolanza divenuta presto orfananza, non per la morte del genitore, bensì per il suo essere un padre-padrone. Un’orfananza però in cerca di redenzione. Perché come Pinocchio uscendo dalle fauci del mostro prende sulle spalle Geppetto, rassicurandolo della vicinanza di una riva che in realtà non vede, allo stesso modo l’autore, dopo fallimenti, cadute e risalite, si fa carico infine del peso del padre. Anche lui non vede l’approdo, ma, come si legge nel sottotitolo, Storie e canzoni dei padri miei, a indicarglielo saranno altri padri, anch’essi protagonisti di questa commovente vicenda umana; al pari della musica, che nella storia svolge un ruolo non secondario.
«Ogni capitolo — scrive Granieri — restituisce qualcosa di mio padre, un calabrese che amò poco e male la sua famiglia, ma che, nell’affrontare la morte a modo suo, mi ha trasmesso una forza che mi ha permesso di sostenete anche le prove più dure». Prove che gli hanno consentito di comprendere che si può essere amati e accettati come figli anche senza un legame biologico. Una figliolanza che don Massimo ha avuto modo di sperimentare, inaspettatamente, più volte. «Non ho certezze assolute — spiega — ma so che, come il biblico Giona, anch’io sono stato salvato nella pancia di un mostro, e che la redenzione è giunta grazie a chi mi ha voluto bene e indicato la via».
Non è stata una vita facile quella di don Massimo, con quel padre anaffettivo, che non aveva conosciuto il suo: i primissimi anni in Inghilterra, a Leicester, in una società moderna e aperta, poi il repentino trasferimento in una Calabria ancora chiusa nelle sue tradizioni; quindi un’infanzia segnata da malattie e ricoveri, un’adolescenza e una giovinezza irrequiete. Un’esistenza complicata ha bisogno di un luogo in cui ritrarsi. «Il silenzio era un bunker per difendermi dal fuoco amico. Lì — scrive don Massimo — mi rifugiavo, con la fantasia immaginavo storie in cui avventurarmi, leggendo romanzi, fumetti e con la radiolina sempre accesa. La musica soprattutto mi portava lontano da mio padre, facendomi sentire al sicuro». Un rifugio mai abbandonato. «Quanti concerti avrò visto in cinquant’anni?», si chiede oggi il sacerdote. «Non li conto più risponde —. Tante voci, tante canzoni hanno accompagnato i miei passi. Alla fine, si tratta sempre e solo di cercare salvezza».
Disseminate nel testo non mancano, dunque, citazioni di cantanti e band che parlano della figura del padre, da David Bowie a Patti Smith, da Tom Waits a ai Cure, dai Clash ai R.E.M., da Franco Battiato a Brunori Sas, che firma la presentazione del volume. Così come molti sono i riferimenti letterari, dalla Divina Commedia di Dante a I promessi sposi di Manzoni, al Miguel Mañara di Oscar Vadislas de Lubicz Milosz. Senza dimenticare il Libro di Giona.
«Poi ci fu l’imprevisto della vocazione sacerdotale», scrive don Massimo. L’inizio del cammino non fu dei migliori, con i primi tentativi andati male e soprattutto quella famiglia sinistroide di mangiapreti: «Sentivo il gelo intorno a me». L’unico a difenderlo il nonno materno, Francesco. E qui entriamo al cuore del libro: la parte dedicata ai padri putativi. A loro don Massimo riserva pagine colme di gratitudine, perché attraverso loro si è manifestata quella Misericordia che lo ha salvato dall’essere un prete infecondo oltre che un figlio colmo di risentimento, in fuga dalle proprie responsabilità e incapace di perdono. Sono diversi questi padri, ma due in particolare emergono su tutti: monsignor Francesco Nolè, arcivescovo di Cosenza-Bisognano, e Franco Nembrini, insegnante e saggista, incontrato dopo la lettura sorprendente del suo commento alla Commedia. «Scrivere di loro — spiega il sacerdote — vuol dire raccontare di uomini comuni che, con il loro amore, hanno combattuto il male, donando una forza che solo l’amore redento può dare».
«Con Francesco Nolè — ricorda Granieri — la paternità non fu solo protezione, ma accompagnamento fino alla fine, un amore che sa soffrire per un figlio e condurlo oltre il buio di un dolore apparentemente invincibile». E se la storia di Pinocchio è il filo conduttore di questa autobiografia, Nolè è Geppetto: «Nella sua “bottega” il vescovo mi plasmò, donandomi occhi per scorgere i segni di Dio in ogni cosa, gambe per camminare verso il mio destino e mani per aiutare il prossimo».
Invece in Nembrini l’autore trova una mano pronta a rialzarlo. Dopo aver conosciuto la sua storia dolorosa, Franco lo spinge a fare qualcosa di impensabile: raccontarla in pubblico. L’occasione è il primo di una serie di incontri quaresimali tenuti da Nembrini nella basilica di San Giovanni in Laterano. «Sentivo che quel dolore doveva finalmente liberarsi dal silenzio che troppo a lungo lo aveva imprigionato. Desideravo che fosse accolto e purificato nel luogo più sacro che conoscessi, dove, da seminarista, andavo regolarmente a confessarmi», ricorda ora don Massimo, che, di fronte a centinaia di sconosciuti, raccontò come i giorni trascorsi accanto al padre morente — un padre che «era il coltello in mano al diavolo, il proiettile da schivare dentro casa, la causa del mio dolore» — gli offrirono l’occasione di sentirsi per la prima volta figlio di quell’uomo «indipendentemente dalle sue colpe o mancanze». Una testimonianza che toccò i presenti e dalla quale, nel segno di un’orfananza condivisa, nacquero amicizie importanti per il sacerdote.
Nella bocca del pescecane non è un libro facile e non solo perché a volte toglie il fiato, ma perché il racconto non è sempre lineare, ma con balzi temporali a sottolineare fatti che hanno lasciato ferite più profonde di altre. È un racconto senza veli, sincero e doloroso come dovrebbe essere una confessione. E quella di Granieri — che oggi vive a Roma, dove insegna ed è cooperatore in una parrocchia, e che non ha perso la passione per la musica — è davvero una confessione a cuore aperto. Raccontando di una figliolanza ritrovata, dà conto del miracolo di un amore redento da un duplice perdono: quello del protagonista verso un padre e verso sé stesso. «Molta gente mi chiede di te. E non ti dipingo come un mostro, ma come un padre che non ebbe la fortuna di essere figlio», scrive don Massimo nell’ultimo capitolo, una struggente lettera al padre. «Il mio dispetto fu di non amarti come avrei dovuto — conclude —. È andata così, papà. A un certo punto abbiamo messo da parte l’odio e siamo cresciuti come uomini e padri, scegliendo di aver cura l’uno dell’altro».